FRA DIAVOLO
Nel variegato mondo del brigantaggio meridionale spicca la figura di Michele Pezza, da Itri, al secolo “Fra Diavolo”. Michele da giovane andava a bottega da Mastro Eleuterio, bastaio burbero e manesco. Ceffoni e rimproveri si sprecavano, finché un bel giorno Michele, stanco di sopportare passivamente, impugnò un punteruolo e glielo ficcò nello stomaco, facendola finita. Inizia così la carriera del brigante diabolico, che prima si dà alla latitanza e poi, per commutazione della pena, si arruola nell’esercito borbonico. Il suo coraggio e la sua abilità di combattente vengono presto premiati con la nomina sul campo al grado di colonnello. Alla testa di tremila uomini lotta al servizio di Re Ferdinando e della Regina Carolina. Appoggia il Cardinale Ruffo nella riconquista del Regno di Napoli, sconfigge ripetutamente i Francesi in una serie di imboscate, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Fra Diavolo. La sua fama nefasta arriva a Parigi e nel 1806 Napoleone è costretto a intervenire con una lettera piena di improperi indirizzata al fratello Giuseppe, nominato nel frattempo re di Napoli. La sorte di fra’ Diavolo a quel punto è segnata. Per sfuggire alla caccia spietata dei Francesi, ripara sui Monti Lattari. Sale al Castello di Lettere e da qui raggiunge Agerola. Ritrova il suo amico Giuseppe Mansi, che aveva combattuto con lui nell’esercito borbonico ed era, nel frattempo, diventato il capobanda di un manipolo di briganti locali. Costui, molto premurosamente, gli offre come nascondiglio la propria casa a Furore, in via Li Summonti, affidandolo alle cure – che non tarderanno a diventare “amorevoli” – di sua moglie. La latitanza nella casa-alcova si prolunga per qualche mese, ma poi la dolce vita finisce. Fra’ Diavolo riguadagna le alture dei Lattari. Resta, “braccato come un cinghiale” per alcune settimane nei boschi di Chiancolelle sopra Tramonti, aiutato e rifocillato dai pastori. Da quelle balze può ben controllare le mosse dei suoi inseguitori, accampati nell’Agro nocerino. Spiazza così i Francesi e si dirige, attraverso i boschi di Cava de’ Tirreni, verso Salerno e da qui a Eboli, dove lo raggiunge con la sua cianciola un giovane suo amico, marinaio di Positano. Il tentativo di salpare per la Sicilia per raggiungere i Reali Borbonici fallisce. Fra’ Diavolo viene catturato con il suo fido complice Vito nelle campagne di Olevano sul Tusciano, per mano del generale Joseph Leopold Hugo, padre del grande Victor. Rinchiuso nel Castello di Arechi a Salerno, viene poi trasferito a Napoli. I Francesi, che in cuor loro lo avevano sempre ammirato, tentano di convincerlo ad arruolarsi nella loro armata con il grado ci Colonnello della Gendarmeria. Ma il fiero ribelle, restando coerente e fedele ai suoi principi, oppone un secco rifiuto. Dopo un regolare processo Fra’ Diavolo, appena trentacinquenne, l’11 Novembre 1806, finisce sulla forca a Piazza Mercato, teatro ricorrente di storiche esecuzioni capitali. Furono tante le lacrime versate, più o meno segretamente, da quanti, cafoni o galantuomini, avevano conosciuto questo mitico “scorridore di campagna”. Ma a piangerlo furono soprattutto le donne che ne avevano potuto apprezzare le grandi virtù di “amatore di montagna”.Diavolo di un inafferrabile brigante. Diavolo di un irresistibile amante.
FUSCHETIELLO
L’appellativo “Fuschetiello” affibbiato a Padre Raffaele Fusco, ha valore di vezzeggiativo più che di diminutivo come potrebbe a prima vista apparire. Costui non era certo un mingherlino, piccolo di statura o di salute malferma. Al contrario, era tarchiato, robusto e di forte tempra e aveva un carattere risoluto e battagliero, un tantino cavilloso eppure amabile e gioviale. Nato il 7 Aprile 1810 “fra le rocce di Furore”, in località Vigne (oggi Sant’Alfonso) da nobile famiglia fu chiamato ancora giovanissimo allo stato religioso. Entrò a soli sedici anni e in coppia con il fratello Emmanuele nella Congregazione del Santissimo Redentore di Materdomini e fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1832. Passarono appena dieci anni e Fuschetiello ne divenne Rettore. Il suo sagace dinamismo lo spinse ad impegnarsi subito per restaurare il collegio e la chiesa, le cui fabbriche erano piuttosto logore e minacciavano il crollo. Rifece i solai, rinforzò la facciata, la abbellì con archi di pietra viva e conferì in tal modo un aspetto architettonico più maestoso all’intero complesso, tanto da meritarsi l’appellativo di “Restauratore di Materdomini”. Come spesso capita, la leggenda, impadronendosi di talune vicende e colorandone i contorni, ne ha fatto un personaggio da romanzo. Intorno alla sua figura di “benefattore dell’umanità” si scatenò una tempesta furiosa, nella quale i Carbonari locali coinvolsero finanche il Papa. Ma il tempo, che è stato sempre galantuomo, fugò ombre e sospetti. L’intricata vicenda fu chiarita e Fuschetiello ne uscì indenne e ancor più rafforzato. L’irrefrenabile voglia di fare lo spinse ad avventurarsi nelle iniziative più disparate senza mai preoccuparsi troppo delle finanze. Fuschetiello sapeva trovare il denaro e, quel che più conta, spenderlo per il bene comune. Egli mostrò di essere aperto e generoso nell’offrire ospitalità ad amici e benefattori e nell’assicurare adeguata assistenza ai più deboli e bisognosi. Uomo di Dio e modello di virtù, durante la carestia del 1844, fece grandi elemosine e non esitò ad attingere finanche ai beni di famiglia, diventando così popolarissimo. Nel 1854 costruì nella sua Furore, d’intesa con il fratello Emmanuele, in prossimità della sua dimora familiare, una cappella gentilizia, dedicata a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Sprezzante del pericolo, girò per paesi, città e campagne, attraversò a dorso d’asino gole e montagne in quei tempi infestate dai briganti, sempre con un archibugio a tracolla! Eppure i suoi detrattori, sempre disposti a criminalizzarlo, non poterono mai provare che avesse sparato un solo colpo neanche per difendersi. Travolto dalle leggi eversive, che nel 1866 chiusero i conventi, Fuschetiello rientrò in famiglia ma non si rassegnò ad oziare. Dopo soli tre anni ritornò a Materdomini, dove inaugurò il suo secondo rettorato guadagnandosi altri meriti. Il 22 novembre 1875, sempre con il fratello Emmanuele e attingendo ai beni di famiglia, comprò il derelitto demanio di Lettere e lo restaurò in soli tre anni, inaugurandolo il 15 dicembre 1878. “La piccola città di Lettere, detta dai Latini Letterum o Lycterae, mi parve luogo molto adatto ad un Istituto-Convitto elementare e ginnasiale” dichiarava Fuschetiello. La scelta cadde sull’antico seminario, restaurato dentro e fuori e trasformato in uno splendido edificio. Un giardino contiguo apriva al passeggio lunghi e larghi viali, sicché ai suddetti vantaggi si congiungevano quelli di una dimora comodissima. Tale Istituto-Convitto, intitolato a Sant’Alfonso, divenne ben presto un riferimento per l’intera Italia Meridionale e consentì la ripresa della vita redentorista. A causa di una scalfittura mal curata, degenerata in cancrena, Fuschetiello morì a Lettere il 20 novembre 1888, amorevolmente assistito da Padre Emmanuele e dai suoi confratelli. Esumato dopo circa due anni, i suoi resti mortali furono trasferiti ad Agerola per essere definitivamente sepolti nella Chiesa di Tutti i Santi, sede della Confraternita del Santo Rosario, davanti all’altare della navata sinistra, come da sua volontà testamentaria, essendone egli stato Padre Spirituale dal 1866 al 1869, facendo spola fra Furore e Bomerano.
MECO del SACCO
Il secolo XIV vide il fiorire sui monti dell’Appennino marchigiano e, in particolare nell’area del Piceno, di numerose sette ereticali: Spirituali, Fraticelli, Beguardi, Pinzocheri. L’assenza del Papa dall’Italia, i dissidi fra la chiesa e i comuni, favorirono lo sviluppo di questo fenomeno che tanto ebbe ad incidere sulla vita religiosa di quel periodo. In questo torbido “ambiente” s’inquadra la figura di Domenico Savi, detto Meco del Sacco, fondatore della setta dei Sacconi, le cui vicende sono intrise di mistero e di leggenda. E’ fatta risalire al 1320 la nascita della setta sacconiana, che in pochi anni crebbe fino a contare oltre diecimila adepti e fra essi “molti del clero e della nobiltà, dei cavalieri”. Fra le posizioni ereticali dei Sacconi meritano di essere sottolineate: la limitazione del debito coniugale e la liceità del “tactus impudici” con l’impeccabilità in tresche notturne. In parole povere essi praticavano quello che si definisce “l’amore libero”, riunendosi, soprattutto di notte, in un Romitorio appositamente fatto costruire da Meco sul Monte Polesio, con annessa chiesa dedicata all’Ascensione. Far l’amore pregando e pregare facendo l’amore: era questa l’essenza dell’eresia sacconiana. “Gli uomini e le donne che pregano di notte in comunità, all’oscuro, non commettono peccato, qualunque cosa facciano insieme” era il dogma di Meco e di sora Clarella, sua consorte. Presto fioccarono in Avignone al trono di Papa Benedetto XII i ricorsi della pia gente ascolana. Nel 1338 il Pontefice spedì ad Ascoli Fra’ Giovanni di Monte Leone, l’inquisitore della Marca. Costui, dopo un sommario processo, fece incarcerare l’Eresiarca, gli strappò di dosso l’abito bizzocale sacconiario e ordinò il diroccamento del Romitorio dell’Ascensione. Pianse dirottamente il furbo Meco, non già le sue colpe, ma la demolizione del suo Postribolo. Fece pubbliche dichiarazioni di pentimento, convertì la sua Casa in un Ospedale per Infermi e qui, furbescamente, camuffò le sue tresche come opere di pietà. A distanza di un solo anno Meco ottenne la facoltà di riedificare il diruto Romitorio e l’annesso tempio dell’Ascensione, per potersi ritirare solitario sulla cima del Monte Polesio “per fare penitenze”. E così con più furbesca cautela i Sacconi poterono riprendere il loro credo ereticale. Nel 1344 Clemente VI, Sommo Pontefice in Avignone, decise di estirpare definitivamente l’empio Sacconismo. L’allora Inquisitore della Marca, Fra’ Pietro della Penna fece incarcerare l’Eresiarca Meco del Sacco ed emise la “sentenza di fuoco” che fu eseguita nel 1345. Consegnato alla curia secolare, fatta l’abiura, Meco fu bruciato VIVO in pubblica piazza “con tutti i suoi libracci” (solo o insieme a molti suoi seguaci, come sostenuto da alcuni). I Sacconi scampati alla terribile sentenza della Santa Inquisizione e non disposti a rinunciare al loro movimento ereticale scapparono dai Monti del Piceno in cerca di nuovi rifugi. Lo storico riferisce, per altre vie, che un folto gruppo di Piceni scappò verso il Sud, riparando in Campania e trovando un sicuro nascondiglio negli anfratti boscosi dei Monti Lattari. Ed ecco, forse, la spiegazione di quel Toponimo “ o’ Meco” ricorrente sulle nostre montagne e in particolare a Furore, dove contraddistingue, da secoli, l’amena collina sottostante al Girone Santo Jaco. E i Sacconi che danno il nome del loro Capo ai luoghi dove, in sua memoria, continuarono a praticare la loro eresia. Sarebbe un’intrigante spiegazione della stessa origine del nome TERRA FURORIS (Terra del Furore ovvero FURia d’amORE).
OMBRE DI ASCETI ED EREMITI
Le balze tormentate e gli orridi anfratti della Terra del Furore sono stati sempre avvolti da un alone di mistero. Ne sono testimonianza eloquente i nomi di numerosi luoghi, che evocano da tempi remoti personaggi ed eventi mistici. Malo Passo, Punta Campana, Pedata, Vottara, Pizzocorvo, Scoglio del Sangue sono toponimi troppo pervasi da significati arcani, da riferimenti magici. Questa rupe scoscesa e impervia, densa di gole e di caverne, venne scrutata con timorosa diffidenza dagli stessi incursori Saraceni, che nelle loro scorribande la evitarono, ritenendola abitata da streghe, demoni, spiriti maligni. Numerose e suggestive vicende aleggiano su queste rocce, tramandate oralmente dai “cunti” delle nonne e dei lunghi conversari invernali accanto al camino. Nell’immaginario collettivo alimentato dalla narrazione, orchi e fate, regine e “munacielli”, diavoli e janare, fatti e misfatti, storia e leggenda si mescolano in un repertorio intriso di allegorie morali, di significati trascendenti, di vicissitudini quasi sempre liberatorie ma, a volte, anche terrificanti. Come cancellare dallo sbalordimento infantile certi riti crudeli? La punizione ricorrente che vede il malcapitato di turno legato con gli arti a due robuste pertiche, prima piegate e poi liberate a squarciargli barbaramente il corpo. La nostras memoria popolare, condita spesso da un pizzico di fantasia ma pur sempre di grande suggestione e di singolare valore culturale ed etnografico, annovera, assieme alle figure di Mastu Grillo e di Madama Crapa, personaggi importanti quali il bandito Ruggeri di Agerola, menzionato da Boccaccio nella decima novella della quarta giornata del Decamerone, il missionario redentorista Raffaele Fusco, detto “Fuschetiello”, fondatore del Seminario di Lettere e del Santuario di Materdomini, appartenente ad una nobile famiglia, proprietaria della intera vallata di Sant’Alfonso e la cui antica dimora è stata di recente trasformata in uno splendido agriturismo. Poco più in là, in alto verso occidente, su un bastione di roccia, assediati dai frassini, si ergono, misteriosi e spettrali, i ruderi dell’eremo di Santa Barbara. Questo insediamento rupestre ha alle spalle una caverna, che si allunga per qualche chilometro sotto il pianoro di Bomerano, con il quale, pare, fino a pochi decenni fa comunicasse attraverso un inghiottitoio naturale, passaggio segreto di banditi e di briganti. La grotta reca indelebile, il marchio dell’ignoto e anima, da sempre, congetture, illusioni e tensioni. I segni del cambiamento da un uso abitativo ad una funzione puramente devozionale e, in ultimo, sepolcrale, sono leggibili con una certa facilità negli scalini di accesso allo stanziamento-nascondiglio e nelle fabbriche semidirute della chiesa, poste sul ciglio dell’abisso, precedute da un ampio cortile con sottostante cisterna. Nei dintorni piccole, preziose sorgive hanno abbeverato per secoli e fino a pochi anni fa gli abitanti della zona. Oggi resta di esse solo qualche incrostazione calcarea sulla parete nuda e qualche canaletta invasa dalle erbacce. Lo storico riferisce di un primitivo riparo sotto roccia, adattato, intorno all’anno mille, ad oratorio e laura cenobitica, con successive evoluzioni in muratura. Sulle pareti della chiesa resistono tracce di decorazioni. Una di esse dà l’idea di un sole irradiante. Nell’abside della navata centraleè dipinta un’ottocentesca Madonna con bambino tra due monaci.Spettacolari i resti della scalinata, che si stacca dal sentiero per Bomerano e si abbarbica al costone su robusti archi e arditi rampanti. Immediatamente al di sotto della chiesa, a mezza rupe, un’altra grotta contiene resti di muri affrescati. Tutto è rovina intorno. Abbandono, oblìo. Ombre di asceti, di eremiti, ma anche di briganti e di banditi, sembrano rincorrersi in un’atmosfera mistica, o forse tragica. Il silenzio è totale, opprimente. Quasi un mondo di spettri, un universo rimosso. L’immagine sbiadita di un passato indecifrabile, nel quale sprofonda la velleità della storia e affiora, leggera, la vaghezza dell’essere.