Enogastronomia

LA   CUCINA

Un ruolo determinante nella cucina locale giocano i prodotti tipici di Furore: pomodorini di montagna, olio di oliva, patate di terra asciutta, erbe spontanee e odorose.

Piatto-monumento è “totani e patate”, ideato dal contadino-pescatore di queste terre ed estensibile quantitativamente alla famiglia numerosa con l’aggiunta della preziosa solonacea di origine americana.

Tradizionali sono pure “il migliaccio”, timballo di semola e carne di maiale, precursore dei maccheroni; la “minestra maritata”, arricchita delle verdure spontanee e profumate della collina; la “caponata”, fatta con il pane biscottato a “freselle”, bagnato e condito di pomodorini, acciughe e melenzane all’olio di oliva.

Le massaie dell’antica Terra Furoris producevano pasta a mano, fatta in casa, di grande qualità. Fra i vari formati (fusilli, orecchiette, cavatielli, scialatielli, lasagne)  spiccano i “Ricci Furitani”, una sorta di fusilli “andata e ritorno” passati su di una tavoletta rigata che prendono il nome, sembra, dall’antica denominazione degli abitanti del luogo: oggi Furoresi, ieri Furitani.

E’ nell’insieme una cucina raffinata ed eclettica, intima, femmina, che cattura e mescola profumi di terra e di mare, in cocktails semplici quanto gustosi, ambigui, non estranei a quel profumo di mistero e di magia che qui sa farsi sottile incantamento.

DOLCI  E ROSOLI

I dolci sono, forse, più di tutti gli altri alimenti, l’espressione più autentica dell’arte sapiente e della cultura del territorio in cui nascono. Nella vasta gamma di specialità tipiche della pasticceria napoletana, Furore inserisce alcune varietà di dolci, che hanno dentro di sé la tradizione  e il profumo di questa collina corteggiata dal mare e baciata dal sole.

Nelle “Cicale” la pasta di mandorle, tipica dell’area mediterranea, è arricchita dal profumo più vero di questa terra: il “Nanassino”, un delicato rosolio ricavato dal Fico d’India e la cui denominazione richiama la voce del Ficurinaro, tipica figura di venditore dei vicoli napoletani. Un liquore quasi unico nel suo genere, che ben può essere considerato il simbolo di tutto quello che di selvaggio, di esotico, di spontaneo e di sensuale fa di questa terra un eterno incantesimo.

Prelibatezze rare quanto preziose sono poi le varietà di frutta conservate sotto spirito: l’uva Sanginella all’anice, le albicocche al brandy, i fichi al rhum. Furore batte sul selvaggio con tanti altri rosoli: alle more, alle fragoline di bosco, al finocchietto, alle carrube, alle erbe.

Un discorso a parte merita l’Elisir delle Janare, il liquore del desiderio, a base di sedano crudo, ritenuto il principe degli afrodisiaci già dal tempo della Roma antica.

IL   VINO

Nel ridotto spazio agrario della Costa d’Amalfi il vigneto gioca da sempre un ruolo storicamente preminente. La scarsità del terreno coltivabile, strappato alla roccia attraverso dissodamenti e terrazzamenti di stupefacente ingegnosità, ha imposto uno sfruttamento intensivo del suolo, oltre  a una severissima selezione delle colture.

Da qui il primato dell’agrumeto e del vigneto con frutti (come viene definito in antichi contratti di pastinato), con viti inizialmente appoggiate a sostegni vivi (mandorli e noci), poi affidate a lunghe pertiche – siamo dell’XI secolo – e, infine, fatte crescere su pergolati appositamente costruiti con pali di castagno (puntilli in verticale, travierzi e curreturi incrociati in orizzontale).

Si evita così la monocoltura, consentendo la coltivazione orticola del terreno sottostante, che a sua volta assicura la pressoché totale autosufficienza alimentare della famiglia contadina. Il superfluo è  di sostentamento.

Questi crinali, che, come tutte le colline del buon vino, hanno i piedi immersi nell’acqua, il volto baciato dal sole, e i fianchi sinuosi di una bella fanciulla, non potevano non essere generosi con quel loro grande spasimante, perdutamente innamorato, che è il vignaiuolo di questa terra.

Con la grande passione di costui dovette fare i conti – riferisce lo storico – lo stesso Carlo d’Angiò, quando fu costretto a bruciargli l’oggetto amato per poter riuscire a convincerlo, o meglio a costringerlo, a imbarcarsi sulle sue navi per costituire finalmente il relativo equipaggio.

Amor con amor si paga ed ecco un nettare delicato e fragrante insieme, apprezzato fin dai tempi antichi, quando divenne prodotto di esportazione altamente remunerativo. Il suo grande successo, lungi dall’essere attribuito all’ostracismo che la conquista araba aveva imposto per motivi religiosi all’industria vinicola di vaste regioni del Mediterraneo, poggiò tutto sulle sue intrinseche qualità. La superfice vitata andò via via estendendosi e arricchendosi di nuovi vitigni, importati dall’Oriente e, negli anni, selezionati in relazione alle caratteristiche del nuovo habitat, in una varietà ricchissima, difficilmente riscontrabile altrove.

Le verdi distese dei vigneti, punteggiate dalle cime dei puntilli, coprirono i fianchi scoscesi della collina, diventando uno degli elementi caratteristici del paesaggio agricolo, specie negli areali di mezza costa, compresi fra i duecento e i cinquecento metri di altezza sul livello del mare.

Qui, dove la vocazione vitivinicola è più intensa, sopravvivono vitigni di stirpe nobilissima. Sono i bianchi Coda di Volpe, Bianca Zita, San Nicola, Ripoli, Fenile, Ginestrella e i rossi Pere ‘e Palummo, Serpentaria, Tintore, Taralluzzo, tutti meritevoli di grande attenzione e sicuramente degni di entrare ufficialmente nella produzione vinicola locale, che ha ottenuto, qualche decennio fa la “Denominazione di Origine Controllata (D.O.C.).

I vini attualmente prodotti – bianco, rosso e rosato – ben si accoppiano ai piatti della cucina locale. La loro sapida compiacenza li rende quanto mai piacevoli. Berli significa vivere a tutto tondo la festa che i luoghi ispirano, con un invito a fare…Furore. Tanto da far scrivere a Veronelli: “Berrai vini freschi e gioiosi, capaci di buttarti dentro tutto il sole e tutta l’allegria che hai sulla pelle”.